La Cina è uno dei Paesi in cui le violazioni dei diritti umani sono più estese: dobbiamo essere coerenti e agire su tutto, a cominciare dai piccoli accordi e scambi culturali
Intervento in Aula nella discussione sulla ratifica dell’Accordo di coproduzione cinematografica tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica popolare cinese, firmato a Pechino il 4 dicembre 2004
Signor Presidente,
la Cina è uno dei Paesi in cui le violazioni dei diritti umani sono più estese; è sicuramente il Paese in cui c’è la maggiore violazione dei diritti umani anche a causa del numero elevato di abitanti.
Di fronte a tale situazione, che credo sia assolutamente innegabile, vi sono due atteggiamenti possibili: quello della chiusura e quello del dialogo che – come ha evidenziato il relatore, senatore Barbieri – può portare a una reciproca influenza, nella speranza di pervenire a un miglioramento della situazione dei diritti civili in Cina. È evidente che è stata scelta la via del dialogo. In tal senso, la Cina ha avuto una grande apertura di credito con trattati come quello in esame – con il voto da parte di un organismo che non è governativo ma che, indubbiamente, è a suo modo rappresentativo di una vasta realtà – per l’assegnazione delle Olimpiadi del 2008 proprio alla città di Pechino.
Valutando i risultati che queste aperture dovrebbero avere generato, credo non si possa essere soddisfatti. La maggior parte delle organizzazioni che si occupa di diritti umani ritiene che la repressione dei diritti umani sia, dal punto di vista fattuale, aumentata negli ultimi anni; è innegabile, però, che dal punto di vista formale siano state introdotte, almeno in teoria, norme di maggiore garanzia o, sarebbe più giusto precisare, di minore violazione dei diritti umani. Mi riferisco a quanto è stato proposto, per quanto riguarda la pena di morte, ad esempio per il diritto di appello a una Corte diversa da quella che ha già decretato la condanna a morte di una persona; mi riferisco anche a quelle proposte volte a garantire maggiormente, o almeno un po’, i diritti dei lavoratori. Di fatto, però, la situazione è tutt’altra.
La maggior parte delle esecuzioni avviene nelle cosiddette campagne “Colpisci duro”, che sono di propaganda e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che, anziché avvenire attraverso materiale illustrativo o inserzioni televisive (come accade invece per le campagne di informazione del nostro Governo contro la droga o per l’accettazione di comunità con culture diverse dalla nostra), vengono fatte a suon di condanne a morte. Se la campagna è contro la corruzione, è necessario che ogni Provincia od ogni Distretto esibisca il suo adeguato numero di esecuzioni, che vengono attuate con metodo brutale e sommario, a volte con processi che di fatto non sono neanche tali. Le garanzie, peraltro scarsissime, vengono invece attuate soltanto al di fuori di queste campagne. Pertanto, può accadere che per l’identica fattispecie di reato ci siano procedure giudiziarie completamente diverse: le une con scarsissime garanzie per l’imputato e le altre addirittura senza neanche prendere in considerazione alcuna garanzia per l’imputato.
Cosa ha a che fare questo rispetto all’accordo di cui stiamo parlando? Ebbene, ringraziando il relatore per aver accennato al problema dei diritti umani con un Paese come la Cina, tuttavia, se avessimo siglato un accordo, al tempo in cui nel Sudafrica vi era ancora il regime dell’apartheid, di qualunque genere – ad esempio, di produzione cinematografica – con la Repubblica sudafricana, non si sarebbe proceduto a quest’accordo, per la verità. Sicuramente, poi, se lo si fosse fatto, non si sarebbe persa occasione – ad esempio, nella relazione con cui il Governo presenta alla Camere il Trattato per la sua ratifica – per ricordare la necessità di superare quell’odioso regime che, infatti, fu superato in modo del tutto pacifico. Qui, invece, mi pare che in questo, come in molti altri casi, non si perda occasione piuttosto per esaltare la grande e impetuosa crescita economica della Cina, per ricordare che la Cina è una grande opportunità anche per le nostre imprese: sicuramente per qualche imprenditore è una grande opportunità, ma è anche certezza di perdere parecchi posti di lavoro nel nostro Paese.
Sul punto vero dei diritti umani, invece, ci si esprime con timidezza – quando lo si fa. Allora, va bene che si tenti di generare un’osmosi tra la nostra cultura, basata innanzitutto sulla libertà, e quella, in particolare cinematografica, cinese; però mi chiedo se, nell’ambito di queste coproduzioni italo-cinesi, sarebbe immaginabile la produzione di un film su alcuni importanti temi del mondo cinese che potrebbero dare luogo a film straordinari per le problematiche da presentare agli spettatori delle opere cinematografiche prodotte: si potrebbero, ad esempio, ricordare la tragedia del Tibet, le campagne di sterilizzazione o di aborti forzati, le decine di milioni di persone uccise indirettamente attraverso la generazione di carestie artificiali, che in Italia venivano esaltate sotto l’etichetta del “grande balzo in avanti” di colui che si chiama sempre, con sussiegoso rispetto, il Presidente Mao – uno dei più feroci dittatori che mai abbiano governato un Paese al mondo. Ci sono tanti argomenti che potrebbero essere oggetto di film; ad esempio, l’aggravamento delle violazioni dei diritti umani, proprio in relazione alle Olimpiadi: per la costruzione degli impianti, per mantenere la tranquillità sociale e mediatica sono attuate, infatti, ulteriori violazioni. Interi quartieri sono evacuati da un giorno all’altro, con tre giorni di preavviso, per costruire meravigliosi impianti che impressioneranno i visitatori che, tra poco più di un anno, si recheranno in Cina per partecipare e osservare questo grande avvenimento sportivo.
A questo punto, intendo citare un’interrogazione presentata dieci giorni fa proprio al Ministro degli Affari esteri: va bene che prosegua la collaborazione cinematografica però, il 27 novembre 2006, il vicepresidente della Casa della cultura tibetana in Italia ha inoltrato, alla nostra Ambasciata a Delhi, una formale richiesta di concessione dei visti per un periodo di 30 giorni a una compagnia teatrale – un gruppo composto di 19 elementi di origine tibetana che hanno chiesto di venire nel nostro Paese perché invitati da una serie di enti, parecchi dei quali sono enti locali che hanno aderito all’iniziativa “Amici del Tibet”. In molti Municipi e in molte sedi provinciali è esposta la bandiera del Tibet che, naturalmente, è severamente vietato esporre nel Tibet. Questo Gruppo di artisti è stato invitato a venire in Italia per avere uno scambio culturale, che è probabilmente più modesto e anche meno costoso di una coproduzione cinematografica. Purtroppo, a questi artisti è stato rifiutato, dalla nostra Ambasciata a Delhi, la concessione del visto con delle giustificazioni un po’ bizzarre: parrebbe che queste persone siano a rischio migratorio, anche in considerazione della loro età. Ora, per l’esperienza che abbiamo di immigrazione clandestina nel nostro Paese, mi sembra che di rischio migratorio si possa parlare, all’incirca, dall’età di zero anni fino ai novanta anni, forse con eccezioni che si potrebbero avere nel caso di qualche vegliardo che venisse comunque nel nostro Paese. Si tratta, inoltre, di una preoccupazione bizzarra, visto che non si ha notizia di tibetani, siano essi di nazionalità cinese o di nazionalità indiana, che abbiano violato le leggi sull’immigrazione. Aggiungo che è ulteriormente bizzarro che ci si preoccupi del rischio migratorio di un gruppo di 19 artisti quando, in ogni altro aspetto dell’attività di questo Governo, si fa di tutto invece per incoraggiare l’immigrazione – specialmente se clandestina. Mi riferisco a tutti i vari provvedimenti che costituiscono delle sanatorie di fatto o delle vie per far entrare gli immigrati clandestini nel nostro Paese. Penso, ad esempio, a un certo modo di recepire la direttiva europea sulla libertà di circolazione all’interno degli Stati dell’Unione; a un articolo, in particolare, del disegno di legge governativo sulle coppie conviventi; ai continui aggiramenti della cosiddetta legge Bossi‑Fini che vengono posti in essere.
Pertanto, va bene la collaborazione con la Cina sulla produzione cinematografica ma, in questa occasione, vorrei chiedere al Governo di interessarsi del perché viene negato il visto a questi artisti tibetani che vorrebbero venire nel nostro Paese, invitati da istituzioni che, tra l’altro, hanno anche stanziato del denaro, contando sull’ovvia concessione di tali visti. Non vorrei che il vero motivo che osta alla concessione dei visti sia il mantenimento di buoni rapporti con la Cina, che evidentemente preferisce negare la realtà dell’etnia, della cultura, della religione e – diremmo – anche della Nazione tibetana, e non gradisce che questo nome, questa cultura e questa religione vengano in alcun modo diffusi. A fronte di una risposta del Governo, potrei allora sentirmi meno a disagio nel votare tale provvedimento, altrimenti non riesco a capire perché incoraggiare il cinema e invece tenere fuori degli artisti che vengono invitati dagli enti locali. Altrimenti credo che non possiamo essere seri quando affermiamo che nei contatti con la Cina e le autorità cinesi li si incalza, li si esorta e li si richiama al rispetto dei diritti umani. Il pragmatismo cinese – e non soltanto quello cinese per la verità, perché forse è un pragmatismo di molti regimi totalitari – è tale per cui possono benissimo ascoltare con pazienza il fervorino sui diritti umani e poi infischiarsene completamente e andare avanti. Ma, allora, o qui c’è un comportamento coerente, continuativo e serio, oppure sarebbe meglio lasciar perdere i fervorini o far finta di agire per il rispetto dei diritti umani.
Qui non parliamo di cosucce: parliamo di 10.000 esecuzioni capitali l’anno – forse perché neanche si può sapere la cifra. Parliamo di un Popolo che si sta cercando di cancellare nella sua identità; c’è stata una cinesizzazione del Tibet: a fronte di 6 milioni e mezzo di tibetani ci sono sette milioni di cinesi che sono stati introdotti, di fatto quasi deportati in alcuni casi, per cinesizzare quella regione. Abbiamo una situazione di violazione sistematica dei diritti umani, con centinaia di migliaia di persone che si trovano nelle carceri per le loro convinzioni religiose, politiche o filosofiche…
Non possiamo far finta di nulla. Dunque, dobbiamo essere coerenti e agire su tutto, a cominciare da questi piccoli accordi e scambi culturali.