DAT: Servono chiarezza, misura nelle parole e prudenza

Quello che scriviamo in queste Aule deve, poi, essere applicato – dalle persone, dai medici e dai Magistrati

Intervento in Aula nella discussione sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento

Signor Presidente,

vorrei aggiungere un elemento di cui dobbiamo tener conto nell’esaminare questo disegno di legge. O, meglio: l’argomento su cui verte questo disegno di legge; le norme, poi, vengono applicate da qualcuno. Altri – lo ha fatto molto bene la senatrice Rizzotti, in particolare – parlano dei medici che si trovano a dover applicare queste norme: non dobbiamo comprimere la loro professionalità, la loro coscienza e la capacità di valutare le situazioni con l’esperienza e l’approfondita conoscenza di cui dispongono. Ma anche i giudici devono applicare le norme.

Ricordo quello che accadde all’epoca del caso Eluana Englaro, quando ci furono dei giudici che dedussero la volontà di questa povera ragazza da un’affermazione da lei fatta quando stava benissimo, quando aveva meno di vent’anni; parlando del caso di una persona in gravissime condizioni, pare avesse detto che, piuttosto che stare in quelle condizioni, avrebbe preferito morire. Dei magistrati, in seguito, hanno usato questo elemento per stabilire quale fosse la volontà di questa giovane donna applicata a un caso che lei neppure immaginava, che poi avrebbe avuto i suoi riflessi e il suo momento decisivo molti anni dopo. Al di là del merito, qualunque fosse stato l’orientamento preso dall’interessata, da suo padre e da tutto quanto si è aggiunto, quando ci si trova di fronte a forzature di questo genere bisogna essere molto attenti. Infatti, di fronte a certe aperture e facoltà, poi – magari – arriva un magistrato che, se si limita ad applicare la legge, non diventa famoso, mentre lo diventa se fa sentenze innovative e, in altre parole, va contro la legge e la Costituzione. La Costituzione, infatti, afferma che i magistrati sono soggetti solo alla legge – e, dunque, sono soggetti a questa, anche se ci si ricorda sempre della parola «solo». Dobbiamo, invece, ricordare che quello che scriviamo in queste Aule poi non resta così ma deve essere applicato e, a volte, ciò avviene in modo talmente estensivo per cui occorre misurare le parole ancor più di quanto comunque si deve fare nello scrivere una legge. Pertanto, con gli emendamenti che ognuno nel Gruppo di Forza Italia ha presentato a titolo personale, abbiamo attratto l’attenzione e sottolineato la necessità che sia chiaro cosa sono le disposizioni anticipate di volontà che noi avremmo preferito fossero “dichiarazioni”, per i motivi illustrati prima dalla senatrice Rizzotti e da altri colleghi.

Vi è, però, un altro punto che deve essere chiaro, dal momento che queste dichiarazioni possono essere rilasciate con qualsiasi mezzo: va benissimo il mezzo – non importa che sia per iscritto o con una registrazione; l’importante è che, attraverso di esso, sia evidente che quelle sono dichiarazioni rese allo scopo di applicarle nel caso la persona si trovi in quelle condizioni. Non so, infatti, se Eluana Englaro avrebbe ridetto le stesse cose se le avessero detto “Guarda che, poi, questo lo applichiamo a te, fosse anche tra venti o quarant’anni”. Bisogna, quindi, essere prudenti.

Un altro punto importante è quello riguardante i minori e gli incapaci, rispetto ai quali ci dovrebbero essere dei limiti molto maggiori. Che siano i genitori a decidere, a dare il loro parere – questo è ciò che diciamo noi – è normale, per forza. Intanto, però, bisognerebbe tener conto del fatto che ci sono dei bambini, anche veramente in tenerissima età (figuriamoci un diciassettenne), che hanno pienamente capacità e comunque diritto a esprimere la loro opinione; in questi casi, dovrebbe essere scritto chiaramente che, nel dubbio, si lavora a favore della conservazione e del proseguimento della vita di questa persona. Non è immaginabile che si affidino a persone terze, sia pure i genitori, decisioni che possono determinare la morte o che determinano con certezza la morte; infatti, la cessazione delle terapie può determinare la morte ma, se una persona non è alimentata né idratata, muore di sicuro. Pertanto, ci dovrebbe essere una clausola di garanzia per la quale il minore debba essere oggetto di cure tali da mantenerlo, in ogni caso, in vita.

Paradossalmente, per raggiungere questi risultati (ritorno a quanto dicevo prima riguardo al fatto che, nello scrivere queste leggi, dobbiamo tenere conto di chi le applica), abbiamo chiesto la soppressione di parole che – in realtà – condividiamo pienamente. Al comma 2 dell’articolo 3, che riguarda i minori e incapaci, si dice che il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso avendo come scopo la tutela della salute psicofisica (su cui, ovviamente, siamo d’accordissimo) e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità. Io e diversi altri colleghi abbiamo chiesto di sopprimere le parole: «nel pieno rispetto della sua dignità». Lo abbiamo fatto perché siamo contro la dignità del minore? Assolutamente no. Noi siamo fortissimamente, con il cuore e con la mente, per il rispetto della dignità del minore, ma abbiamo visto cosa è successo non in un Paese strano ma in Inghilterra, che all’epoca era ancora nell’Unione europea e ancora adesso, di fatto, lo è. Per legge lo è, anche se ha chiesto di uscirne; ma, in ogni caso, è all’interno di una serie di organismi internazionali con Paesi di grandissima civiltà. Dei giudici, per tutelare la dignità (questa è stata la formula) di Charlie Gard, di questo bambino gravemente malato, hanno impedito ai genitori di portarlo all’estero, negli Stati Uniti o altrove, dove potesse essere curato con cure innovative e delle quali non si conosceva l’efficacia rispetto allo stadio della malattia al quale il povero Charlie Gard era arrivato. Sarebbe stato, però, un tentativo. Era certissimo, e lo certificavano i medici stessi, che Charlie Gard sarebbe morto restando in quell’ospedale, non tentando nuove cure. Probabilmente, sarebbe morto anche con queste nuove cure ma i giudici dissero (e la questione, purtroppo, arrivò anche al livello della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo) che non si poteva sottoporre questo bambino allo stress di portarlo negli Stati Uniti d’America: sarebbe stato troppo per la sua dignità. Certo: morire va bene; fare un viaggio per tentare nuove cure, invece, non va bene. Allora, la dignità lasciamola stare perché, se è ritenuta dignità di una persona impedire – contro il volere accorato e in ogni modo ripetuto dei genitori – che un bambino sia curato, lasciamo da parte la dignità. Purtroppo, la dignità per noi è la sacralità della vita umana mentre, per altri, è evidentemente un’altra cosa.

Tutto ciò che somiglia all’eutanasia deve essere analizzato con grande prudenza. Qui non c’è l’eutanasia attiva ma quando si dà tale facoltà, sulla base di dichiarazioni vincolanti per il medico (che possono essere cambiate fintanto che la persona è cosciente – e non, invece, evidentemente, quando queste cose vanno applicate), si prevede la possibilità di compiere un’azione che determina certamente la morte: cioè sospendere l’alimentazione, sia pure artificiale, e l’idratazione.

Ci troviamo di fronte a una cultura che sta andando avanti e che è molto diffusa. Parliamo della famosa (almeno, io spero che sia famosa, anche se non se ne parla molto) dichiarazione di Jacques Attali – ritenuto un grandissimo pensatore, stimatissimo anche nel nostro Paese, dove ha molti ammiratori e anche amici personali. Egli, non molti anni fa, disse delle parole agghiaccianti. Cito: “Credo che sia nella logica stessa della società industriale che l’obiettivo non debba più essere di allungare la speranza di vita ma di fare in modo che, all’interno di una durata determinata della vita, l’uomo viva il meglio possibile, in modo tale che le spese per la salute siano il più ridotte possibile in termini di costi per la collettività”. E vedete come va qui? Per carità! Qualità della vita! Qualità della vita rapportata ai costi e dove c’è qualcuno, che non è l’interessato, che giudica qual è la qualità della vita degli altri. “Appare, dunque, un nuovo criterio”, scrive Attali, “il criterio della speranza di vita, quello del valore di un sistema di salute – funzione non più di allungamento della speranza di vita ma del numero di anni senza malattie e, in particolare, senza ospedalizzazione. Dal punto di vista della società, è preferibile che la macchina umana si arresti brutalmente piuttosto che si deteriori progressivamente. Cinismo a parte, cioè cinismo assorbito, le spese di salute non raggiungerebbero mai, se si applicasse questo suo splendido criterio, il livello attuale”. Poi egli teorizza, dopo i sessanta-sessantacinque anni, di considerare seriamente l’ipotesi dell’eutanasia generalizzata salvo rari casi – tra i quali naturalmente c’è lui stesso, che ha ampiamente superato questa età, è tutt’ora fra di noi e non ha pensato di attuare le sue idee. Queste si applicano solo agli altri, che sono la plebaglia di cui si calcola il costo, e non a loro stessi, che sono ritenuti i massimi pensatori. Ma costui non è un pazzo scriteriato cui non dà retta nessuno. Costui è considerato (e lui stesso lo ha detto più volte) lo scopritore dell’attuale Presidente della Repubblica francese – che egli dice, addirittura, di avere previsto nonché costruito. E si sa che ne è uno dei consiglieri principali. Quindi, non parliamo di un pazzo cui non dà retta nessuno.

Lui stesso ha detto che le sue affermazioni sono state prese fuori contesto. È vero, ha ragione: il contesto è ancora più interessante, perché la premessa per arrivare a questo ragionamento – che porta a dire che sopra i sessanta, sessantacinque anni una persona dovrebbe essere gentilmente e caldamente invitata a farsi uccidere attraverso una forma di eutanasia gentilissima, per carità, e che “va analizzata”, dice in un’intervista Attali – è che si parla molto del costo della produzione delle merci, ma bisogna anche chiedersi il costo della produzione dei consumatori. L’essere umano, nella visione di questo pensatore che ha grande prestigio e ascolto nelle Cancellerie, viene definito consumatore; e ciò che costa alla società e non è mero consumo, affinché coloro che producono prodotti a basso costo – e, comunque, in grandissima scala – possano trarne un profitto, è considerato un costo da ridurre il più possibile. Cosa interessa della persona a coloro che la pensano così? Il fatto che consuma; se non consuma, può anche morire. Se poi, oltre a non consumare, costa più di quello che consuma, allora va soppresso.

Quando c’è una tale visione – ripeto, non in qualche dichiarazione paradossale, fatta in un teatro per scandalizzare la gente, ma da parte di una persona che scrive libri, è ascoltata e afferma, mai smentita, che si ritiene il vero scopritore dell’attuale presidente della Francia, uno dei Paesi più importanti del mondo e sicuramente d’Europa – dobbiamo essere molto attenti. Vorrei, quindi, citare un’altra frase: “La produttività delle macchine aumenta più rapidamente della produttività relativa alla produzione dei consumatori. Consumatori e macchine non sono sullo stesso piano: lo scopo è consumare macchine e prodotti; il problema è che abbiamo troppi costi per la produzione dei consumatori, per cui il vero fine della società è la vendita del prodotto e non la soddisfazione delle esigenze delle persone“.

Attenzione: quando ci sono in giro – e ce ne sono anche nel nostro Paese – persone che la pensano in questo modo, dobbiamo essere ancora più prudenti di quanto comunque già richiederebbe una materia di questo genere. Spero che così avvenga durante l’esame di questo provvedimento, in particolare con gli emendamenti ai quali ho fatto cenno.

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