Si irride questa manovra, definendola “elettorale”. Ebbene sì: nel ridurre davvero le imposte è una manovra elettorale, nel senso che mantiene la parola data ai Cittadini nel 2001
Intervento in Aula sulla Legge Finanziaria 2005
Signor Presidente,
essendo l’ultimo a parlare, ho avuto il privilegio di avere ascoltato gli altri che sono intervenuti prima di me.
Credo che un provvedimento così complesso come la legge finanziaria sia il luogo naturale di scontro tra le diverse impostazioni che si intendono dare al governo dello Stato. È pertanto positivo che ci sia una diversità di vedute tra la Maggioranza e l’Opposizione, salvo ulteriori articolazioni. Tuttavia, sarebbe sicuramente un vantaggio per tutti se si potesse parlare sulla base di dati reali e non manipolando i numeri o, addirittura, semplicemente negando le realtà di fatto.
Mi permetto di prendere spunto da interventi fatti all’inizio di questa discussione, in particolare dai relatori di Minoranza. Ad esempio, il senatore Marini ha insistito sul fatto che le famiglie al di sotto della soglia di povertà sono sempre più numerose e lambiscono la cifra di due milioni e mezzo. Questo è un numero vero, ed è effettivamente una preoccupazione di tutti noi che siano così numerose. Occorre però precisare che, dall’inizio della legislatura, le famiglie in queste condizioni sono diminuite: infatti, il numero delle famiglie sotto la soglia di povertà è sceso di 303.000 unità dall’inizio della legislatura. Durante i cinque anni di Governo dell’Ulivo, il numero di famiglie sotto la soglia di povertà è invece aumentato di 149.000 unità. Gli individui sotto la soglia di povertà, nel corso di questa legislatura, sono diminuiti di 1.042.000 unità, mentre erano aumentati di 525.000 unità nel corso dei cinque anni di Governo dell’Ulivo. Tutto ciò ci conferma una cosa che sappiamo da tempo: la Sinistra ama così tanto i poveri che desidera che ce ne siano il più possibile! Noi, invece che lottare in questo modo, combattiamo la povertà e, se anche ci saranno meno poveri, sapremo consolarci. Altri ancora fanno la lotta alla ricchezza; anche questo non è il nostro modo di riferirci alle cose. La soglia di povertà – voglio sottolinearlo – è stata dovutamente aggiornata secondo l’evidente crescita del costo della vita: solo dal 2002 al 2003 è stato registrato un aumento di tale soglia del 5,6 per cento e, nonostante questo aumento, però, il numero di famiglie e di individui poveri è fortemente diminuito.
Si è detto poi (lo hanno affermato i senatori Giaretta e Marini) che non si fa nulla per le famiglie. Ogni provvedimento può essere visto in diversi modi, ma il concetto di “nulla” è abbastanza chiaro. Il “nulla” che abbiamo fatto per la famiglia sta nel fatto, ad esempio, che le detrazioni per i figli a carico sono passate dai 258 euro stanziati alla fine del quinquennio dell’Ulivo ai 516 euro in vigore oggi; nel 2005, con l’introduzione del nuovo meccanismo, tale cifra diventerà variabile e potrà arrivare fino a 700 euro. La triplicazione della detrazione per i figli non mi sembra davvero possa essere considerata un “nulla”. I dati riportati si rifanno alla tassazione 2000-2001. Se prendiamo ad esempio il 1999, la detrazione per ogni figlio era pari a 210 euro: il passaggio da 210 a 700 euro non mi sembra cosa da poco.
Così come non è cosa da poco lo stimolo all’istituzione di micro asili ed asili nido presso le aziende, per l’istituzione dei quali è prevista una deduzione fino a 2.000 euro. Si tratta di strumenti utilissimi che rendono conciliabile il lavoro con la maternità e la paternità. Già dall’anno scorso abbiamo introdotto un premio di 1.000 euro per ogni bambino nato dopo il primo; anche a tal proposito si è detto che la cifra stanziata è poca cosa e che con quella cifra non si comprano neanche i pannolini. Se è vero che i 1.000 euro sono pochi, è anche vero che sono 1.000 in più rispetto a quelli che concedeva il Governo dell’Ulivo. Abbiamo poi introdotto la detrazione per i membri della famiglia, non necessariamente a carico, che siano non autosufficienti. Tale detrazione concede un beneficio alle famiglie pari a 400 o 500 euro. Certamente, una persona che deve badare a un individuo non autosufficiente costa di più, ma tale costo veniva sostenuto anche prima. Oggi vi è anche un beneficio fiscale compreso tra i 400 e i 600 euro. Questo è un aspetto rilevante, perché prendersi cura a proprio carico, da un punto di vista umano ed economico, di un congiunto non autosufficiente credo rappresenti un’esperienza molto importante nella vita di una famiglia – soprattutto per la persona non autosufficiente che, anziché essere collocata in un istituto, che anche se bello ed efficiente non è mai come la propria casa, viene accudita in famiglia. Abbiamo, inoltre, esteso la tutela della maternità e della paternità anche ai lavoratori semi autonomi; abbiamo aumentato gli assegni famigliari e introdotto gli assegni di maternità per le madri a basso reddito e senza indennità di maternità a causa della loro situazione lavorativa, e altro ancora. Ritengo, pertanto, che la famiglia, alla luce dei provvedimenti adottati dal Governo su tale materia in questi anni (questa non è certo la prima Finanziaria che noi variamo), rappresenti un punto forte dell’azione del Governo.
Vorrei toccare, infine, un punto particolarmente importante: è stata addirittura citata la presunta violazione dell’articolo 53 della Costituzione, il cui secondo comma recita: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Senatore Morando, Lei è spesso illuminante nei suoi interventi perché mette in luce aspetti tecnici importanti; la sua perizia in questo settore è certamente nota e riconosciuta ma il giochino dei decili che ha illustrato nella sua relazione non è degno di Lei. Dice, infatti, il senatore Morando che, suddividendo la popolazione dei contribuenti – anzi, la popolazione per decili (dove il primo è il decimo della popolazione che ha un reddito più basso, il secondo è quello che viene subito dopo e così via di seguito, e il decimo decile è quello della popolazione che ha il reddito più alto) – è possibile notare una progressione impressionante: i provvedimenti di quest’anno, dice il senatore (quindi senza tenere conto di quelli degli anni scorsi), danno benefici solo al 2 per cento della popolazione compresa nel decile del reddito più basso; si sale al 27 per cento della popolazione del secondo decile, poi si sale ancora al 54 per cento del decile successivo, fino ad arrivare al 95 per cento del secondo decile dei cittadini più facoltosi e al 99 per cento di quello dei cittadini con il reddito più alto, sostenendo quindi che tutto ciò configura esattamente l’opposto della progressività dell’imposta prescritta dalla Costituzione.
Detto così, l’argomento suona coerente, ma c’è un elemento da considerare: la ragione per cui l’attuale riduzione delle imposte incide solo sul 2 per cento dei Cittadini appartenenti al decile dei Contribuenti a reddito più basso è che tutti gli altri, il restante 98 per cento, già non paga nessuna imposta sul reddito, e risulta dunque impossibile ridurre un’imposta che è già pari a zero.
Sarebbe come rimproverarci perché non abbiamo esentato i poveri, ad esempio, dall’imposta sulle aziende: certo, non la pagano! È ovvio che non gliel’abbiamo ridotta. Sul secondo e il terzo decile c’è ancora l’incidenza della no tax area su cui ritorniamo. Arrivando alle ultime aliquote, quelle più alte, ai settori della popolazione a più alto reddito, indubbiamente essi vengono tutti beneficiati da queste riduzioni, anche perché nelle prime riduzioni eravamo soprattutto intervenuti sui redditi più bassi e, di conseguenza, occorreva dare un beneficio a tutti quanti. Però questo è un argomento che viene usato a contrario. Nulla è più opinabile dei numeri, però bisogna anche porre un limite ai sofismi matematici che si usano.
Venendo alla progressività dell’imposta, che è un punto interessante, sono due le realtà, i numeri, di cui dobbiamo tenere conto per poter parlare di progressività o meno dell’imposta. La prima è sicuramente la percentuale di reddito che viene pagata in termini di imposta sul reddito, e la seconda è l’incidenza sulla quantità di imposta pagata delle riduzioni di imposta introdotte dal nostro Governo; parlare in termini assoluti, paragonando il beneficio di imposta relativo a un reddito di 14.000 euro con quello riferito a un reddito di 200.000 euro è evidentemente fuorviante. Su un reddito di 200.000 euro l’anno, il beneficio in termini assoluti è certamente superiore rispetto a quello ottenuto su un reddito di 14.000 euro: ebbene, vediamo qual è.
Faccio un paragone rispetto alla scorsa legislatura, perché non possiamo ragionare come se questa fosse la prima finanziaria di questo Governo: essa costituisce un altro passo nel quadro generale di riduzione delle imposte che noi abbiamo programmato. Ebbene, un reddito di 200.000 euro l’anno, con coniuge e un figlio a carico, godrà l’anno prossimo di una riduzione rispetto al 2000 di 4.920 euro mentre, all’estremo opposto, un reddito di 14.000 euro avrà una riduzione di 1.548 euro.
Certo, il reddito di 200.000 euro ha un vantaggio in termini assoluti tre volte superiore, è un fatto; mentre, però, per il percettore del reddito di 200.000 euro la riduzione dell’imposta è pari al 6 per cento, per colui che guadagna 14.000 euro la riduzione è del 100 per cento: si tratta, cioè, di una totale esenzione dall’imposta sul reddito.
Precisando meglio: ai tempi del Governo dell’Ulivo, chi guadagnava 14.000 euro e aveva coniuge e figli a carico pagava 1.548 euro di imposta sul reddito; oggi non paga nulla. Questo è il modo in cui noi affrontiamo la questione.
Per gli altri scaglioni di reddito, abbiamo cifre simili: a chi guadagna 18.000 euro, l’imposta sul reddito viene ridotta del 58 per cento, chi guadagna 25.000 euro ha una riduzione del 34 per cento, fino a scendere – come dicevo – al 6-6,6 per cento di riduzione dai 100.000 euro in su.
Il risultato finale, quello sulla base del quale evidentemente si deve giudicare l’applicazione o meno del criterio di progressività imposto dalla Costituzione (articolo 53), è quanta percentuale del reddito si deve pagare in imposta. Con 14.000 euro di reddito oggi non si paga nulla, mentre all’epoca del Governo dell’Ulivo si pagava l’11 o 12 per cento; su 18.000 euro si paga il 6,7 per cento, mentre all’epoca del Governo dell’Ulivo si pagava di più; si passa al 14 per cento per chi guadagna 25.000 euro, al 26 per cento per chi guadagna 50.000 euro fino ad arrivare al 34 per cento per chi guadagna 100.000 euro e al 38 per cento per chi guadagna 200.000 euro. Direi che questa progressività dell’imposta è totalmente rispettata. Va bene criticare, va bene giudicare male quello che fanno gli altri, però dire l’opposto della verità non è un contributo alla discussione.
Ricordo anche che la Costituzione, in particolare l’articolo 53, non è in vigore dal 2001 ma da molto tempo, persino prima dei Governi dell’Ulivo, cioè dal 1948. Dal 1948 a tutti gli anni ’60, l’aliquota massima dell’imposta sul reddito- che all’epoca aveva una diversa articolazione – era decisamente più bassa di oggi e nessuno mai si sognò di dire che la Costituzione non era rispettata. Piuttosto succedeva che, all’epoca, il tasso di crescita del nostro Paese era molto alto.
Ritengo che ciò non sia un caso, non sia una coincidenza di tipo astrologico, ma ci sia un rapporto di causa ed effetto che vogliamo riprodurre nel futuro. Pensiamo che la riduzione delle imposte sia un ulteriore passo al fine di stimolare l’economia del nostro Paese, perché torni ad avere tassi di crescita alti e stia così al passo di altri Paesi – non solo quelli che escono da uno stato di povertà. Purtroppo, come sappiamo, siamo in ritardo rispetto a Paesi fuori dall’Unione Europea, che crescono più del nostro.
Questa è la ragione che ci ispira nel prendere tali provvedimenti, che certamente non sono facili e comportano una rivisitazione di molti aspetti della spesa pubblica. Per esempio (e questa è l’ultima citazione ripresa dalle affermazioni dei relatori di Minoranza), il senatore Giaretta, all’inizio del suo intervento, ha detto che il Governo, nel non toccare nulla, è prigioniero di una tendenza al conservativismo e rinuncia a ogni ambizione di una politica riformista; poi si è lamentato del fatto che la Finanziaria comporti movimenti per un totale di 40 miliardi di euro. I casi sono due: o non si muove nulla, come diceva all’inizio del suo intervento, oppure si muove qualcosa – perché aver rimodulato, riposizionato 40 miliardi nelle entrate e nelle uscite del bilancio dello Stato vuol dire che si muove parecchio. Vogliamo muovere molto di più nel futuro, per riuscire a rendere questo Stato efficiente, per portarlo all’altezza delle aspettative dei Cittadini e delle imposte che essi pagano, oggi assai meno di ieri, ma che evidentemente ancora sono alte. Facciamo questo perché crediamo che rappresenti un bene e una priorità per il nostro Paese.
Ebbene, se c’è un aspetto del modo di fare politica che segna l’enorme differenza tra noi e i nostri oppositori è il seguente. Per noi l’impegno assunto con gli elettori è assoluto, da mantenere sebbene le condizioni economiche siano assai diverse da quelle che ci si poteva aspettare a causa di una serie di avvenimenti del tutto imprevisti (dall’11 settembre allo scoppio della bolla speculativa americana, alla crisi argentina e così via). Ripeto: per noi gli impegni assunti con gli elettori costituiscono un impegno assoluto, da rispettare ad ogni costo. Per i nostri oppositori, evidentemente, gli impegni assunti sono una cosa da dimenticare il più presto possibile – come si fece nel 1996, dove gli 85 punti del programma del candidato Prodi furono immediatamente cestinati, il giorno dopo le elezioni.
Si arriva al punto di irridere questa manovra, definendola “elettorale”. Sì, se vogliamo, quella che comprende la riduzione delle imposte è una manovra elettorale, ma noi facciamo riferimento alle elezioni del 2001, nel corso delle quali abbiamo assunto un impegno che stiamo mantenendo. Questo è il nostro modo di fare politica: ad alcuni non piace, ma alla maggior parte dei Cittadini italiani sono convinto di sì.