Violenza sulle donne: distinguere i retaggi culturali dalle patologie, e gli omicidi come prerogativa statisticamente maschile dalle uccisioni delle donne in quanto donne

La violenza in generale – e, in particolare, verso le donne da parte degli uomini – non può che suscitare il più forte senso di esecrazione, disgusto e ripugnanza

Intervento in Aula nella discussione sulla ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, e sulle mozioni per l’adozione di misure contro la violenza sulle donne

Signor Presidente,

ci stiamo occupando del fenomeno che si è preso a chiamare “femminicidio”, non perché nel nostro Paese – dove certamente vi è una situazione molto diversa da quella di molti altri Paesi, anche di quelli che hanno firmato la Convenzione di Istanbul e, a maggior ragione, di quelli che non l’hanno fatto (ed è interessante vedere l’elenco di quelli che non l’hanno neppure firmata e che sono ben lontani dal ratificarla) – vengano uccise più donne che uomini (le statistiche ci dicono che il 70 per cento delle persone uccise in Italia sono uomini e il 30 per cento sono donne) ma perché, nell’ambito di questo 30 per cento, c’è sicuramente una significativa percentuale di donne che vengono uccise proprio in quanto donne, in quanto vittime di un atteggiamento di sopraffazione da parte di alcuni.

Piuttosto, è interessante notare che, esaminando il totale degli omicidi in Italia, il 91 per cento è commesso da uomini e solo il 9 per cento è commesso da donne. Poiché è chiaro che non è che le donne commettano meno omicidi perché ci riescono di meno per una forza fisica tendenzialmente un po’ inferiore, ma perché ci sono effettivamente meno portate. Da questo punto di vista, gli uomini in generale, ma soprattutto quelli che commettono questi reati, hanno da imparare dal comportamento generale delle donne, anche confrontando statisticamente i dati.

Pertanto, è importante isolare, dal punto di vista concettuale, il fenomeno dell’uccisione di donne in quanto tali, perché, in alcuni casi (naturalmente non in qualunque assassinio di donne), esso è indice di un atteggiamento di sopraffazione che a volte implica violenze di altri tipi – certamente più numerose di quanto evidenziato dai dati che abbiamo udito e che conosciamo.

Tuttavia, bisogna anche evitare di confondere il patologico con la situazione generale della nostra società. Francamente, non credo che in Italia ci sia costantemente e dappertutto un clima che favorisce e che in qualche modo giustifica e incoraggia un atteggiamento violento verso le donne; anzi, è il contrario. Dobbiamo anche dire le cose positive: il nostro Paese in generale ha un’incidenza di omicidi inferiore alla media degli altri Paesi. Abbiamo un numero di omicidi inferiore anche a quello di molti di quei Paesi che hanno, sul piano della parità dei diritti tra gli uomini e le donne, una situazione storica più consolidata della nostra.

Bisogna anche evitare atteggiamenti propri di uno Stato troppo pedagogico. Trovo degli esempi proprio nel preambolo di questa Convenzione, il cui testo ritengo sia per intero non solo da accettare, ma sottoscrivibile e fortemente sostenibile. Nel preambolo ci sono delle espressioni che sicuramente possono essere valide in altri Paesi ma, francamente, avrei davvero difficoltà nel caso del nostro Paese a dire lo stesso. Si legge, per esempio: «Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

Non penso che nel nostro Paese le donne siano costrette a una situazione sociale subordinata agli uomini ma, di certo, se ci sono delle situazioni in cui si può intravedere un atteggiamento di subordinazione o di prevaricazione degli uni sugli altri, non credo si tratti di violenza ma, semmai, di un qualche retaggio culturale che colpisce non solo gli uomini ma anche le donne – talvolta portate a rinunciare a posizioni o a carriere, a farsi avanti per cose per cui hanno talento e capacità- assai più che la violenza. A volte, questo afflato di politically correct che trasuda da molti di questi documenti e, in particolare, dal substrato culturale che li ispira, credo vada preso con prudenza.

Un’altra parte del preambolo si riferisce a rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione, e rileva che tutto questo si manifesta nella violenza contro le donne. Sicuramente è avvenuto nel nostro passato e avviene in altri Paesi ma, adesso, direi che anche questa espressione è difficile da sostenere per il nostro Paese. Credo che dobbiamo evitare di sposare per intero filosofie che sono, per certi versi e da un punto di vista strettamente culturale, un po’ estremistiche. Detto questo, è persino ovvio – sembra strano dirlo – sostenere che la violenza in generale – e, in particolare, verso le donne da parte di uomini – non può che suscitare il più forte senso di esecrazione, disgusto e ripugnanza.

Tornando all’aspetto culturale, molti dei preamboli e delle affermazioni contenute in questa Convenzione sembrano prendere come assioma il concetto che la violenza sulle donne è un portato dell’antica società – dove indubbiamente c’erano ruoli molto diversi e, tendenzialmente, una subordinazione della donna rispetto all’uomo – e l’unico antidoto a questa violenza è la totale parificazione tra uomo e donna non soltanto dal punto di vista della legge – e ci mancherebbe: ce l’abbiamo nella nostra Costituzione da 65 anni – ma anche della promozione di una cancellazione, come previsto dall’articolo 12 della Convenzione, di ogni atteggiamento culturale che presupponga un ruolo subordinato della donna rispetto all’uomo e di qualunque stereotipo di specificità della donna rispetto all’uomo. In altre parole, non si potrà neanche più dire che una donna fa meglio un mestiere perché implicherebbe una specificità culturale. A maggior a ragione, non si potrà neanche dire che una donna non può svolgere una certa professione perché non è portata. Questi atteggiamenti ci danno una visione forse un pochino manichea della questione.

Vorrei concludere il mio intervento con un dato che apparentemente non c’entra nulla. Centouno anni fa, le donne potevano votare in pochissimi Paesi del mondo – tra cui lo Stato del Wyoming, per una bizzarra vicenda polemica che ebbe luogo negli anni Sessanta dell’800; indubbiamente, erano discriminate sotto molteplici aspetti in molti Paesi e certamente anche nel nostro, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dove, appunto, le donne non votavano (avrebbero ottenuto il diritto di voto di lì a poco in quegli Stati).

Ebbene, quando naufragò il Titanic, come si sa, non c’era un numero sufficiente di scialuppe e, quindi, fu naturale aspettarsi – come infatti avvenne – la corsa per garantirsi un posto su di esse. All’epoca però vigeva una regola che esiste ancora oggi, anche se ora è un po’ meno impegnativa: prima le donne e poi gli uomini. Oggi, dare la precedenza ad una donna davanti a un ingresso o aprirle la porta è un atto di cortesia, un atto carino; all’epoca, invece, dare la precedenza a una donna significava garantire a lei la salvezza e destinare l’uomo alla morte. Ebbene, quella società che non riconosceva alle donne molti diritti – li avrebbe riconosciuti di lì a poco: c’era grande movimento in questo senso – anzi, che sotto molti aspetti manteneva le donne in una condizione di disuguaglianza, fece sì che meno del 20 per cento degli uomini salisse sulle scialuppe e si salvasse, mentre più del 70 per cento delle donne fu condotto e incoraggiato a salire su quelle scialuppe per salvarsi.

Non è, giustamente, solo la cultura egualitaristica di oggi a dirci che la violenza contro le donne è un atto orribile, ma ce lo dicono anche i valori migliori di una società e di una tradizione diversa che si è evoluta nella società moderna. Anche quei valori ci portano quindi nella stessa direzione, a condannare cioè l’orrore della violenza sulle donne, condanna insita anche nella nostra cultura e che non è una trovata degli ultimi 100 anni.

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